I social network hanno, senza ombra di dubbio, rivoluzionato il mondo della comunicazione e della informazione ma, come ogni grande cambiamento, essi presentano tanto aspetti positivi, quanto negativi.
Tale tipologia comunicativa, infatti, da un lato favorisce la libertà di espressione e di stampa, permettendo a tutti di venire a conoscenza, in pochi secondi, di una notizia per poi postare la propria opinione a riguardo, ma – dall’altro – può favorire il compimento di illeciti di natura penale.
Oggi, dunque, ci occupiamo di comprendere se sussista e in capo a chi, una responsabilità per concorso in omissione nel reato di diffamazione ex art. 595, III comma, Codice Penale, nel caso in cui ivi venissero pubblicati contenuti offensivi in sede di commento.
Quando ne rispondono il blogger, ossia il creatore della pagina FB o l’host provider, cioè il fornitore dei servizi internet?
Quanto ci occupa sembrerebbe inquadrarsi nella disciplina concorsuale dell’art. 40, II Comma, c.p., per cui chi ha il dovere di evitare il compimento di un’azione penalmente rilevante e ometta di ciò esperire, risponde del reato perpetrato come se lo avesse eseguito egli stesso.
La superiore disciplina, dunque, pone una clausola di equivalenza tra il non impedire e il cagionare, imputando un evento posto in essere da terzi o all’esito di varie concause naturali, a colui che, per legge, contratto od ordine dell’autorità giudiziaria, avrebbe dovuto impedirlo, sì assumendo un obbligo di garanzia inevaso.
L’Ordinamento, infatti, attribuisce a determinati soggetti la funzione di garanti di alcuni interessi che non possono efficacemente essere protetti dai titolari stessi.
A tal riguardo, quindi, sorgono due macro categorie di garanzia:
Orbene e in base alla superiore classificazione, sembrerebbe, dunque, possibile attribuire in capo al blogger una posizione di controllo tale da renderlo penalmente responsabile del reato di diffamazione nel caso in cui vengano pubblicati contenuti inappropriati nel proprio diario virtuale.
Quanto sopra appare, è effettivamente fondato?
Sul punto si è pronunciata la Corte di Cassazione che con sentenza n. 12546/2019 ha svolto una attenta e accurata analisi distinguendo due distinte condotte:
– la pubblicazione di un contenuto offensivo a carattere diffamatorio a opera dello stesso blogger per cui è indiscutibile la sua responsabilità ex art. 595 c.p., ovviamente non a titolo omissivo;
– la pubblicazione di commenti inappropriati da parte di terzi nella pagina virtuale gestita da un blogger.
Chi risponde in questo ultimo caso del reato di diffamazione?
A tal proposito, la Suprema Corte ha approcciato il problema proponendo un parallelo tra la figura del blogger e quella dell’internet provider al fine di valutare la riconducibilità in capo a uno di questi due soggetti dell’obbligo giuridico di impedire la commissione di illeciti consumati da terzi su una piattaforma da essi fornita.
Gli Ermellini hanno sin da subito escluso che possa sussistere in capo al provider un obbligo di verifica ex ante delle informazioni trasmesse, ipotizzando a suo carico un solo obbligo di rimozione ex post del contenuto diffamatorio di cui sia venuto a conoscenza.
Per l’effetto di quanto sopra, dunque, sul provider non vige un obbligo di impedimento del reato altrui, essendo di fatto impossibile per lui sapere prima ancora che un commento venga pubblicato se il suo contenuto sia offensivo o meno, mentre risponderà del reato ex art. 595 c.p. qualora una volta giunto a conoscenza di un contenuto diffamatorio, abbia coscientemente omesso di rimuoverlo.
Per quanto di cui alla figura del blogger, invece, la Corte di Cassazione ha escluso, in primis, la possibilità di configurazione del reato di cui all’art. 57 c.p. (reati commessi a mezzo stampa) attese le caratteristiche del blog tali da non permettere la assimilazione di questi strumenti digitali a quelle della stampa vera e propria.
Essendo, dunque, impossibile attribuire in capo al blogger una responsabilità così come sopra descritta, si deve anche in questo caso analizzare la possibilità di ricondurre tale fattispecie a quella ex art. 40, II comma, c.p.
A tal uopo, la Suprema Corte ha affermato che, anche con riferimento al blogger, egli risponda del reato di diffamazione solo ed esclusivamente ove ometta di rimuovere il contenuto ingiurioso una volta che esso sia stato postato.
Le superiori assunzioni, dunque si possono riferire anche al proprietario di una pagina o gruppo FB.
Il reato di diffamazione imputabile al gestore di una pagina FB è, perciò, omissivo o commissivo?
Nonostante il riferire che un amministratore di una pagina FB risponda del reato ex art. 595 c.p. ove ometta di cassare un contenuto sconveniente possa far ipotizzare che egli commetta un illecito omissivo, così non è, atteso che costui interviene nella commissione del reato solo successivamente a quando esso è stato realizzato, perché, come si è dedotto in precedenza, su di lui non sussiste alcun obbligo di verifica a monte.
Ciò che manca è, dunque, uno dei requisiti essenziali alla fine della configurazione del reato di tipo omissivo improprio e cioè il presupposto secondo il quale il verificarsi dell’evento dipende per l’appunto da una condotta omissiva, la quale, di contro, non è evidentemente configurabile nel caso oggetto della presente analisi.
Atteso quanto sopra, indi, ciò che è rilevante al fine della configurabilità o meno del reato di diffamazione non è il mancato impedimento dell’evento calunnioso ex art. 40, II comma c.p., ma la successiva condotta mantenuta dal c.d. blogger.
La questione è di grande attualità tanto che è stata portata alla attenzione anche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che con sentenza del 9 Marzo 2017 (caso Phil vs Sweden) ha stabilito la non configurabilità dell’ipotesi di responsabilità personale del blogger qualora egli dimostri che, venuto a conoscenza di un commento diffamatorio, si sia prontamente ed efficacemente adoperato per rimuoverlo.
In conclusione.
Sulla scorta di tutto quanto sinora esaminato, si prospettano due ipotesi finali:
Dott.ssa Chiara Maggiorelli